Rat Race, junk food e orti urbani

Dalla prefazione di Furio Honsell al libro “Gli Orti di Michelle”

 

Che ogni atto abbia valenza politica, soprattutto se compiuto da una First Lady, è una banalità. Per cogliere, invece, come fare l’orto possa diventare la metafora di un programma politico che addirittura conduca all’elezione della prima presidente donna degli Stati Uniti d’America, ci vuole la leggerezza finissima, ma profonda, di un giornalista impegnato come Mario Pappagallo e di un comunicatore esperto come Federico Serra. In un prossimo futuro, sarà ovvio per tutti e non solamente per Pappagallo e Serra, che Michelle Obama iniziò a seminare per la sua campagna elettorale del 2021, oltre dieci anni prima, quando nel 2009 seminò, fuor di metafora, nel South Lawn della Casa Bianca le prime zucchine del suo orto. L’orto, anzi fare l’orto, è la chiave per lanciare un chiarissimo messaggio di salute. Un messaggio rivoluzionario. Raccomanda di agire lentius profondius soavius (più lento, più profondo, più rispettoso) per riprendere quella mirabile riformulazione di uno dei padri del movimento ambientalista italiano Alexander Langer, diametralmente opposta al motto olimpico citius altius fortius (più veloce, più alto, più forte). Motto che invece ben descrive il piglio di Trump. L’orto di Michelle ci parla di salute intesa non come mera assenza di malattia, ma come benessere. Benessere fisico, mentale, emotivo e relazionale. L’orto lancia numerosi messaggi, tutti rivoluzionari.

Messaggi quali l’importanza della qualità del cibo, contro le multinazionali del Junk Food. La necessità di riappropriarsi del tempo, contro lo stress della rat race. Il bisogno di attività fisica – ma non quella dello sport competitivo ed estremo che mira a moltiplicare gli accessi su Youtube per visualizzare i filmati della prestazione. Prendendo la decisione di fare un orto, Michelle ha sintetizzato i messaggi di salute più importanti che l’Organizzazione Mondiale della Sanità promuove ormai da decenni per un’efficace prevenzione. A fronte di un’aspettativa di vita che è cresciuta nel mondo al ritmo di 5 anni ogni 10 nell’ultimo mezzo secolo, non si registra invece altrettanta crescita nell’aspettativa di vita sana. C’è dunque lo spettro che gli anni di vita in più che stiamo guadagnando, non siano anni con più vita, ma anni umilianti di disabilità e di pesanti ed evitabili costi sociali. L’OMS da tempo raccomanda l’adozione di sani stili di vita come la migliore medicina contro le malattie non trasmissibili che sono di gran lunga le principali cause di morte. Fare un orto permette tutto ciò: cibo sano per combattere l’obesità e il diabete, attività fisica nel coltivarlo per contrastare l’ipertensione , ri-allineamento del proprio tempo ai ritmi della natura per evitare l’ansia e la depressione, socialità per contrastare la solitudine. Pappagallo ci conduce a decifrare il cataclisma politico di Trump proprio rileggendo americana attraverso le politiche di salute. Ecco che l’orto di Michelle diventa una strepitosa mossa politica, paragonabile a Gandhi che fila il cotone sull’arcolaio manuale.

Entrando nell’orto scende dal piedestallo, non mira a fare del suo giardino uno status symbol esclusivo, ma diventa invece uno di quei tanti cittadini del mondo occidentale che, anche nelle città italiane che hanno promosso gli Orti Urbani, si ado pera per contrastare l’aumento dei costi dei prodotti alimentari e vuole cibo a chilometro zero migliore di quello della Big Food Industry, ricco solamente di sale e zucchero. Michelle Obama riscatta i guerilla gardners che coltivano le aiuole di quei non-luoghi della nostra contemporaneità che sono le rotonde degli svincoli stradali. Coltivando l’orto Michelle ha dato un sostegno formidabile alle politiche del marito, delineandone il riscatto. Un orto diventa rampa di lancio per un candidato alla presidenza degli Stati Uniti molto più credibile di Hilary, perché più sincero e quindi più capace di raccogliere quell’opposizione a Trump che è rimasta orfana di un autentico leader. Un orto pone senza equivoci l’accento sul tema dell’ambiente e della sua sostenibilità. Non è possibile coltivare un orto senza l’attenzione verso il clima. Lo scetticismo sui mutamenti climatici di Trump, che lo porta addirittura al negazionismo del riscaldamento globale e all’abbandono delle politiche sulle energie rinnovabili di Obama, viene contrastato in modo netto ma soave da Michelle. Un orto diventa così il punto archimedeo di un programma politico nuovo. Trump, il costruttore di grattacieli, il re del cemento, non riesce nemmeno a vedere l’orto dall’alto delle sue torri. Trump pratica la diplomazia dell’esibizione della forza, dell’altezza delle ambizioni, ma l’orto ne denuncia i piedi di argilla opponendovi invece la profondità delle radici della piantina di zucchine che, in armonia con i tempi della Natura, crescono lentamente e dolcemente. Anche l’isolazionismo di Trump viene trasfigurato dalla metafora dell’orto. Un orto è infatti un simbolo di identità ancora più forte e lo è in modo incommensurabilmente più soave delle armi.

L’orto complementa l’Obamacare con una strategia politica attenta alla prevenzione e alla solidarietà. Ormai è indubitabile. Se rapportiamo il benessere di una società (misurandolo in termini di abbandoni scolastici, di consumo di psicofarmaci, di recidività tra i carcerati, di numero di obesi, di ragazze-madri, ad una misura di disuguaglianza come il coefficiente di Gini, emerge una correlazione molto stringente: i paesi con maggiore disparità mostrano uno stato di salute peggiore. Ma ciò non è dovuto, banalmente, al fatto che nei paesi dove c’è maggiore disparità ci sono molti più poveri, e i poveri stanno peggio. È la disparità stessa a essere la causa del malessere! Anche se misuriamo la salute sociale solamente tra i privilegiati, infatti, le loro condizioni di salute sono peggiori nei paesi con maggiori disparità. Se dall’altra parte del muro si muore 20 anni prima, non basta costruire un muro più alto, più forte, più velocemente, si starà comunque peggio! Sono i ponti, i vialetti che non ci fanno calpestare i filari di zucchine dei vicini negli orti urbani, che creano benessere per tutti! Punto a punto Pappagallo e Serra attraverso la lente dell’orto fanno emergere una politica diversa da quella di Trump. Michelle sa che per vincere e raccogliere una maggioranza delusa, ma non sciocca, non può fare proclami luddisti come il ritorno alle campagne e al lavoro manuale. Pone invece una problematica: quella della responsabilità verso le generazioni future, verso la loro salute mentale e fisica. Afferma il loro diritto di ereditare una Terra che possa continuare a dare i suoi frutti, come sta facendo da milioni di anni.

Pone il tema della responsabilità di fronte ai mutamenti climatici, del limite al saccheggio, perché le risorse della Terra non sono inesauribili. Michelle ricapitola così anche il simbolo della Mamma Africa, quell’unica mamma mitocondriale dalla quale discendiamo tutti, quella delle savane del Kenya. Con semplicità ci pone di fronte all’alternativa tra l’inverno nucleare e quello che precede il risveglio della primavera nell’orto. Mario Pappagallo e Federico Serra sembrano intuire che la sensibilità di una delle presenze femminili intorno a Trump alla fine raccoglierà le zucchine di Michelle e ne seminerà di nuove l’anno prossimo. Speriamo sia così, sarà meglio per tutti: per gli americani che saranno meno obesi e meno stressati, ma anche per tutti i cittadini del mondo che saranno più sicuri e per i cittadini a venire. Se l’orto di Michelle parlerà ad Ivanka forse ruberà qualche punto al programma elettorale del partito democratico ma tutto ciò sarà indifferente per l’arancia, che continuerà così a rimanere blu. E questo è ciò che conta, in fondo.