AGORÀ

A cura di Andrea Lenzi
Presidente Health City Institute,
Presidente del Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita (CNBBSV) della Presidenza del Consiglio dei Ministri

La sfida che quotidianamente affrontiamo nella lotta al virus Sars-Cov2 e alla malattia Covid-19, ormai diventati sinonimi, pone una serie di riflessioni che riguardano non solo la professione del medico ma cosa è oggi una comunità.

La Professoressa Ilaria Capua recentemente ha fatto alcune considerazioni che mi sento di condividere e provo a sintetizzare e riproporre.

Circa 10 mila anni fa, a un certo punto compare, come dal nulla, una malattia che inizia a colpire l’uomo con rialzo della temperatura e manifestazioni cutanee, era la peste bovina e che poi è diventato il morbillo. Un virus cominciò a diffondersi lentamente perché l’uomo allora si muoveva a piedi e la diffusione, dovuta al contagio diretto, era di conseguenza lenta. Oggi questo virus circola nella popolazione umana da millenni. Il virus della patologia Covid-19, che è stato generato dal punto di vista biologico da un fenomeno rarissimo, simile a quello del morbillo, cioè il salto di specie, è diventato pandemico in pochi mesi, viaggiando in areo, spesso in business class, attraverso i contatti di affari tra i Paesi. A questo si è aggiunto il ruolo dell’urbanizzazione e della nascita delle megalopoli, che ha cambiato le strutture socio-demografiche, cambiato il rapporto uomo-animale e gli ecosistemi di interi territori, favorendo il salto di specie e la rapida diffusione del virus.

Oggi stiamo assistendo a un qualche cosa di epocale, con un virus pandemico che esce dal suo contesto ambientale boschivo-animale e che attraverso l’uomo ha una diffusione globale.

Io ho iniziato a lavorare come medico nel 1977, anno della mia laurea e quindi ho visto la medicina evolversi dalla fine degli anni ’70, a oggi. In questo lungo periodo, e fino a qualche mese fa, si pensava che uno dei maggiori impegni per il futuro sarebbe stato come migliorare la qualità della seconda metà della vita e soprattutto nell’ultima parte, cioè a come fare in modo che dai 70 agli 85 anni, e oltre, si potesse vivere vita di qualità (aggiungere cioè qualità alla quantità o longevità). Le grandi sfide riguardavano le cosiddette malattie non trasmissibili (NCD), cioè malattie metaboliche, cardiovascolari, neurodegenerative.

Adesso, drammaticamente e in modo inatteso, stiamo affrontando un virus, che dal punto di vista delle caratteristiche non è terrificante come l’ebola o il vaiolo, ma è nuovo, dunque mai affrontato prima. Questo significa che c’è un’assenza assoluta di immunità pregressa. Il sistema immunitario di tutti gli esseri umani non ha mai “incontrato” questo virus, quindi nessuno di noi ha ciò che si chiama “immunità naturale” o “immunità innata.” Inoltre, la sua rapidissima diffusione ha condizionato in modo repentino sia lo stato mentale di tutti i cittadini del globo, ma anche i comportamenti e l’operatività di noi medici, costringendoci a un cambio velocissimo.

Un virus che si presenta come un virus di tipo respiratorio—si potrebbe paragonare, in termini di vie di trasmissione, a un raffreddore o a un’influenza. Il problema è che, in alcuni casi, questi sintomi sono accompagnati da una grave infiammazione polmonare che provoca una grave insufficienza respiratoria. Questa infiammazione si chiama “polmonite interstiziale,” che blocca la capacità del polmone di portare ossigeno all’interno del sangue e smaltire anidride carbonica. Ciò significa che il paziente, nella fase più pesante della malattia, non può respirare senza un sistema di ventilazione forzata e purtroppo, qualche volta, non basta neanche quello. Però, rispetto al vaiolo o all’ebola, che sono malattie che hanno una letalità estremamente elevata, la Covid-19 (Covid come detto è il nome della malattia, mentre il virus si chiama Sars-Cov2) ha una letalità elevata solo in classi di età sopra i settant’anni, mentre al di sotto è contenuta e sotto i quaranta anni fino ad ora fortunantamente, quasi aneddotica.

Una sfida che coinvolge tutta la comunità scientifica che si sta muovendo su tre fronti. Da un lato, avendo identificato il virus, la comunità scientifica sta cercando di produrre un vaccino. Ci vorrà tempo per far sì che il vaccino possa essere commercializzato. Per verificarne la sicurezza e l’efficacia potrebbe essere necessari molti mesi, forse un anno. Dall’altro lato, ci si sta è impegnando per trovare farmaci che consentano di aumentare le probabilità di sopravvivenza di chi entra in fase acuta—la polmonite interstiziale di cui parlavo prima. Infine, si sta cercando di comprendere meglio il virus perché, sicuramente, al di là del vaccino, ci sono anche dei sistemi biologici e genetici che evitano che il virus “attracchi” sulla cellula umana. Si stanno studiando approfonditamente i recettori del virus. In poche parole, il virus viaggia, e a un certo punto trova un punto di adesione e ingresso sulla cellula, poi viene internalizzato e inizia a replicarsi passando da cellula a cellula, provocando danni all’organismo. Ci sono, come in tutte le patologie virali, dei sistemi di competitività recettoriale attraverso i quali si può cercare di ostacolare l’accesso. Una volta capito qual è il recettore che lo fa penetrare, si può cercare di ridurre il numero di recettori disponibili o di avere recettori protetti e indisponibili al virus. Inoltre, si sta studiando la componente genetica del virus e dei sistemi immunitari degli esseri umani, perché per alcuni il virus è letale, ma ci sono anche soggetti asintomatici, o paucisintomatici, ovvero con pochissimo sintomi – cioè manifestano solo un raffreddore, per esempio – e ci sono anche individui che addirittura restano appaentemente sani. Questo vuol dire che in alcuni casi la genetica dell’immunità protegge più che in altri. Su questo si stanno impegnando anche genetisti che fanno parte del Comitato sulle Biotecnologie, la Biosicurezze e le Scienze della Vita, che ho l’onore di presiedere.

La pandemia è un termine che spaventa, e letteralmente vuol dire “tutto il popolo”: “pan” vuol dire “tutto,” e “demos” vuol dire “popolo,” e ciò significa che nessuno ne è esentato. In realtà la pandemia viene dichiarata quando un’infezione colpisce tutti i continenti. A questo punto – tranne forse in Antartide – credo ci siano infetti ovunque, più o meno evidenziati, quindi definire questo virus pandemico è una dichiarazione obbligatoria.

Io ero un ragazzino, ma una pandemia che ricordo è l’influenza cosiddetta ‘asiatica’ del 1957. Avevo quattro anni, e quell’anno mi trasferii con la mia famiglia da Bologna a Roma. Una volta arrivato a Roma, mi ricordo che mia madre mi chiuse in casa per quello che mi sembrò tanto tempo. Non capivo, associavo al trasloco, poi ho capito, ma ricordo che fu un caso eclatante. Un altro esempio è l’influenza spagnola del 1918. Più recentemente abbiamo avuto altre forme virali diffuse, ma non classificate come pandemie perché meno invasive.

Il sistema Italia ha reagito all’impatto epidemico Covid-19, in maniera esemplare. Non appena abbiamo accertato dei casi, abbiamo preso provvedimenti. È evidente che non siamo “militarizzati” come la Cina, quindi i nostri provvedimenti sono stati condivisi, scalari e presi ai vari livelli, fino a raggiungere (come oggi) la chiusura di tutta gli esercizi tranne quelli di prima necessità. L’espansione nel resto di Europa è già in atto. Purtroppo, i sistemi sanitari di altri Paesi sono diversi, ma si può solo auspicare che tutti prendano decisioni tempestive. Serve per loro e per il nostro futuro per evitare infezioni di ritorno.

 

In situazioni di fragilità sanitaria – in alcuni paesi del Medio Oriente e nella maggior parte dei paesi africani – si potrebbero creare dei focolai e delle zone di endemia, ovvero zone in cui la malattia o il virus rimarrà costantemente presente. Per ora sembra che la popolazione africana sia meno predisposta geneticamente, però, allo stesso tempo, non abbiamo numeri veri. Mancano sistemi epidemiologici di certificazione. Oggi non so dare risposte certe sull’Africa, ma mi auguro che siano davvero più protetti.

Ma il mio pensiero come medico va alle migliaia di colleghi, infermieri e farmacisti impegnati ogni giorno nella lotta contro questo virus in una situazione di medicina di emergenza che non era possibile preventivare. Quando ogni giorno la Protezione Civile emana il bollettino ufficiale, tutti noi dobbiamo sapere che dietro una persona salvata vi è uno sforzo professionale e umano indicibile, che dietro una persona che perde la vita vi è la certezza che queste persone hanno avuto accanto nella loro ultima parte della vita degli “angeli”, che tutte le persone che vanno dal proprio medico di famiglia trovano uno di “famiglia”, che le persone che vanno in farmacia trovano dei professionisti che antepongono la salute degli altri alla loro stessa.

Tutti loro e quanti altri nei supermercati, nelle catene di distribuzione produttiva, nei trasporti e nell’informazione deve andare il grazie di tutti noi perché ci fanno capire cosa sia una comunità.