A cura di Mario Pappagallo

Cinque porzioni al giorno di frutta, verdura e legumi per allungare la vita in buona salute. C’è chi ha sempre storto il naso per la quantità e la difficoltà a mantenere l’impegno.

Ebbene oggi si è visto che probabilmente si possono ridurre a tre. Purché un po’ più corpose nella quantità rispetto alle dosi consigliate per le cinque. Senza essere fiscali, e sapendo che la buona medicina si basa sul dubbio, è comunque ormai certezza che una corretta alimentazione può ridurre il rischio di mortalità.

Il passaggio da 5 porzioni a tre è il risultato di una mega studio della McMaster University di Hamilton, in Ontario (Canada), pubblicato su The Lancet e presentato al congresso della Società europea di cardiologia a Barcellona. Uno studio che guarda caso aveva l’obiettivo, con un’osservazione pluriennale, di verificare i rischi per la salute collegati a un cambiamento sociale da una vita rurale a una cittadina.

L’impatto dell’urbanizzazione sulla prevenzione primordiale (l’attività fisica o i cambiamenti nell’alimentazione, per esempio), sui fattori di rischio (obesità, ipertensione, dislipidemia eccetera) e l’insorgenza di malattie cardiovascolari. Insomma i contraccolpi dell’urbanizzazione sulla salute e sugli stili di vita.

Sottolineando, nel caso fossero stati rilevati, anche eventuali vantaggi.

Secondo quanto esaminato dagli studiosi, il più basso rischio di mortalità riguarda, comunque, le persone che consumano da tre a quattro porzioni al giorno di legumi, vegetali e frutta, pari a un totale che varia da 375 a 500 grammi.

La “regola d’oro” sarebbe 125 grammi a porzione per frutta e verdura e 150 per i legumi. Per arrivare a questa conclusione sono stati analizzati i dati della ricerca Pure (Prospective Urban Rural Epidemiology), condotta per dodici anni su oltre 154 mila persone tra i 35 e i 70 anni, arruolate tra il 2003 e il 2013 in 18 paesi ad alto, medio e basso reddito dei cinque continenti.

Insomma uno degli studi epidemiologici più ampi e completi sull’argomento. I volontari partecipanti, di cui sono state delineate le abitudini alimentari, sono stati seguiti per una media di sette anni e mezzo, durante i quali si sono verificati 5.796 decessi. Coloro che assumevano tre porzioni al giorno di frutta, verdura e legumi avevano tassi di mortalità del 22% inferiori a quelli che ne consumavano meno di una. Ma andando oltre nel consumo non vi era alcun particolare beneficio aggiuntivo. “Il nostro studio ha riscontrato il rischio più basso di decessi in coloro che hanno consumato tre o quattro porzioni, equivalenti a 375 a 500 grammi di frutta, verdura e legumi al giorno, con pochi vantaggi aggiuntivi per l’assunzione oltre questa quantità”, evidenzia Victoria Miller, autrice principale dello studio. Inoltre, l’assunzione di frutta era fortemente associata a vantaggi rispetto a quella di verdure. E queste ultime hanno mostrato una maggiore riduzione della mortalità se consumate da crude.

Fin qui conferme, anche se si può affinare il dosaggio dei cibi salva salute. Ma, entrando nello specifico settore cardiovascolare, sarebbe emersa una minore incidenza dei grassi sul rischio danni cuore e vasi. Questo ha fatto esultare i mangiatori di carne e portato ad alcuni titoli fuorvianti da parte dei media, del tipo: “Contrordine: la carne non fa male”. Detta così è “bufala” pericolosa.

In realtà, nella lunga e controversa partita che si gioca sulla sana alimentazione, lo studio Pure avrebbe rivisto la drastica posizione sui grassi rispetto ai carboidrati. Inducendo i ricercatori canadesi a concludere che le linee guida attuali, limitando l’apporto dei grassi totali sotto il 30 per cento dell’energia e i grassi saturi a meno del 10 per cento, non terrebbero conto da quanto emerso dalla loro meta-analisi, secondo cui una dieta ricca di glucidi è associata a un maggior rischio di mortalità, mentre i grassi, sia saturi che insaturi, sarebbero associati a un più basso rischio di mortalità

Il contrordine sarebbe questo e molto finalizzato al cardiovascolare. Ovviamente sarebbe il caso di verificare dove gli abitanti studiati vivevano o vivono, in quali condizioni climatiche, a quale impegno lavorativo e dispendio energetico sono quotidianamente chiamati. Quindi piano con il cantar vittoria o con i contrordini, ma migliori informazioni per personalizzare eventualmente la giusta alimentazione.

“Limitare l’assunzione di grassi non migliora la salute delle persone, che invece potrebbero trarre benefici se venisse ridotto l’apporto dei carboidrati al di sotto del 60 per cento dell’energia totale, e aumentando l’assunzione di grassi totali fino al 35 per cento”, sintetizza Mahshid Dehghan, ricercatrice del Population Health Research Institute della McMaster University, tra gli autori dell’analisi. I ricercatori hanno analizzato le abitudini alimentari del campione (consumo di carboidrati e dei diversi grassi) grazie a questionari validati a livello nazionale e relativi allo stile di vita e alla nutrizione, suddividendo poi i partecipanti in classi a seconda della dieta seguita, dunque in base alla percentuale di energia fornita dai diversi nutienti, carboidrati grassi o proteine. Questi dati sono poi stati confrontati con quelli relativi agli eventi e alla mortalità cardiovascolare: in totale 5.796 decessi e 4.784 eventi.

I ricercatori hanno notato che gli individui nella classe ad alto consumo di carboidrati avevano un rischio di mortalità aumentato del 28 per cento, rispetto a quelli della classe con il più basso consumo di zuccheri, ma non un maggior rischio cardiovascolare.

Viceversa, gli individui nella fascia alta del consumo di grassi mostravano una riduzione del 23 per cento del rischio di mortalità totale, ma anche una riduzione del 18 per cento del rischio di ictus e del 30 per cento del rischio di mortalità per cause non cardiovascolari. Ciascun tipo di grasso era associato alla riduzione del rischio di mortalità: meno 14 per cento per i grassi saturi, meno 19 per cento per i grassi monoinsaturi, meno 29 per cento per quelli polinsaturi. Una maggiore assunzione di grassi saturi era associata a una riduzione del 21 per cento del rischio di ictus. Non vi sono particolari però sull’origine dei diversi tipi di grassi, ossia se da olio extravergine di oliva, se da carne o formaggi, se da girasole o olio di palma. Ne sul grado di elaborazione degli zuccheri, integrali o raffinati. L’importante sarebbe fare attenzione alla qualità dei grassi: sappiamo che quelli da privilegiare sono i monosaturi (l’olio di oliva, per esempio) e alcuni polinsaturi (gli Omega 3 nel pesce o nella frutta secca). In sostanza quelli che sono alla base della dieta mediterranea.

Specifica però l’autrice dello studio Pure: “Per decenni le linee guida nutrizionali hanno puntato l’attenzione sulla riduzione dei grassi totali e sugli acidi grassi saturi, partendo dal presupposto che sostituire questi ultimi con carboidrati e grassi insaturi avrebbe abbassato il colesterolo LDL (quello cattivo, ndr), riducendo così il rischio di eventi cardiovascolari, ma questo approccio si basa su dati relativi a popolazioni occidentali, nelle quali l’eccesso di cibo è una realtà ben nota”.

“Il nostro studio – concludono i ricercatori di Pure – consente invece di studiare l’impatto della dieta sulla mortalità totale e sulle malattie cardiovascolari in contesti differenti, quindi anche in quelle aree in cui il vero problema è la malnutrizione”. E in questi casi probabilmente aumentare la percentuale di buoni grassi è veramente utile.

Quindi lo studio non dice che la carne non fa male. E che “meno pasta e più carne per migliorare le proprie condizioni di salute” non è quanto emerso dallo studio Pure. I ricercatori canadesi non hanno assolutamente contestato i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riguardo un aumento di quasi il 40% del rischio di contrarre un tumore al colon-retto per ogni etto di carne lavorata (come ad esempio gli insaccati) mangiata? E il legame molto stretto tra tumore allo stomaco e consumo di carne rossa, soprattutto se alla brace (l’aumento del rischio supera nettamente il 50%, si tratta di aumento di probabilità e non di effetto conclamato).

Inoltre, sempre secondo studi epidemiologici, le diete che presentano una grande incidenza di proteine animali, accompagnata da un’evidente sedentarietà, presentano rischi maggiori per lo sviluppo di malattie come il diabete, l’obesità, infarti, ictus e altri problemi cardio-vascolari.

Insomma, gli studi scientifici non hanno affatto spazzato via i dubbi sui danni che un elevato consumo di carni rosse e lavorate possono avere sull’organismo umano. Anzi.

In apparenza i ricercatori canadesi sembrano andare controtendenza anche riguardo alla dieta mediterranea: come detto, infatti, sostengono che una diminuzione delle malattie cardiovascolari debba passare necessariamente per una diminuzione dei carboidrati, contenuti nella pasta e nel pane, punti cardine della dieta mediterranea stessa. Anche in questo caso andrebbe verificato il tipo di dieta mediterranea attuata dalle persone seguite per anni nello studio. Che tipo di farina, quanto sale, quanto zucchero aggiunto. Per alcuni tipi di pane e su alcuni tipi di pasta in circolazione nel mondo anglosassone l’etichetta dieta mediterranea è alquanto truffaldina.

E attenzione!

La dieta mediterranea, per fare un esempio su cui riflettere, in Italia è seguita soltanto dal 10% delle persone

mentre il consumo di carne pro capite sta aumentando, arrivando a toccare i 92 chilogrammi a testa all’anno.

Nemo profeta in patria. Quindi se un italiano dice che fa una dieta mediterranea non credeteci: chiedete nel particolare quanta frutta e verdura mangia, quanti legumi, quanta carne e quanto pesce, che tipo di zucchero, se usa burro o olio extravergine, eccetera.