G7 Urban Health
A cura di Mario Pappagallo
Il G7 Salute a presidenza italiana si è concluso a Roma, l’11 dicembre, Parco dei Principi, concentrandosi su uno dei punti chiave approvati congiuntamente nella due giorni più operativamente ufficiale del G7 italiano. E cioè «per avere successo dobbiamo concentrarci sugli stili di vita, su alcol, tabagismo e nutrizione, e su tutti i determinati della salute, promuovendo le città sane, le comunità sane e gli ambienti sani (dall’inglese “healthy city”, “healthy community”, ”healthy environment”)», come ha sintetizzato il commissario europeo Vytenis Andriukaitis: «Tutti giocano un ruolo, le comunità, le regioni, i governi nazionali e internazionali.
Senza il coinvolgimento di tutti non ce la faremo mai».
Al Parco dei Principi è stata la salute nelle città, l’Urban Health, l’oggetto di una prima concreta azione. Con i sindaci italiani pronti a cogliere la sfida e a porsi nel ruolo di attori protagonisti con l’«Urban health Rome declaration». La carta delle 15 priorità, in grado da sole se ben applicate di spostare verso il benessere e la salute l’ago della futura salute globale.
Il ruolo delle città nella promozione della salute nei prossimi decenni sarà, infatti, sempre più strategico, con il 70% della popolazione globale concentrata nelle aree urbane. Per questo occorre una nuova figura, un nuovo ruolo, nell’organigramma municipale: l’Health city manager. Un promotore, gestore e controllore degli stili di vita, in grado di guidare il processo di miglioramento e le misure di prevenzione, in sinergia con le amministrazioni locali e sanitarie. In grado di garantire più attività fisica e sport per adulti e bambini con percorsi ciclo-pedonali per attività di running e walking e spazi verdi pubblici attrezzati come “palestre a cielo aperto”. E, più in generale, di garantire il diritto per ogni cittadino a una vita sana e integrata, rafforzando educazione e informazione sanitaria, soprattutto nelle scuole, creando una cultura della buona qualità di vita. Premiando anche, con incentivi ad hoc, le imprese che fanno della responsabilità sociale la propria stella polare.
Tutto scritto tra le 15 priorità dell’«Urban health Rome declaration», siglata dalla ministra della Salute Beatrice Lorenzin e dal sindaco Antonio Decaro, presidente dell’Anci (Associazione dei comuni italiani), nel corso dell’appuntamento romano del G7 Salute.
«Le città in prima linea, quindi – dice Beatrice Lorenzin nel suo intervento di apertura -, protagoniste di una strategia integrata, attraverso un approccio multilivello che comprenda iniziative di vario genere, sociali prima ancora che sanitarie, come interventi urbanistici e “laboratori” sugli stili di vita sani. Bisogna capire che ambiente e salute sono la stessa cosa. Il cambiamento deve essere innanzitutto culturale. Non si può continuare a rimproverare i bambini che giocano a pallone in cortile perché fanno troppo rumore. Le città devono essere luoghi viventi. Dobbiamo monitorare l’inquinamento e abbatterlo. Garantire la vivibilità dei parchi urbani. Trasformare le nostre città e farle diventare sostenibili, accompagnando i cambiamenti demografici e promuovendo l’invecchiamento attivo. Importante la figura dell’Health city manager, che dovrà coordinare e raccordare tutte le politiche finalizzandole alla creazione di città più salutari».
Con il termine Health city l’Oms descrive una città che è consapevole dell’importanza della salute come bene collettivo e che, quindi, mette in atto politiche per tutelarla e migliorarla, invitando tutti i cittadini all’etica e all’osservanza delle regole di convivenza civile. Partendo da quest’ottica è nata la necessità di mettere in atto nelle aree urbane una strategia integrata, finalizzata a costruire un’idea di città come “promotore della salute”, attraverso un approccio multilivello che comprenda iniziative di vario genere, sociali prima ancora che sanitarie, quali interventi urbanistici, “laboratori” sugli stili di vita sani, come il programma Cities Changing Diabetes che si pone l’obiettivo di studiare il legame tra diabete e città, stimolando iniziative per prevenire la malattia. Tale progetto vede coinvolta anche Roma capitale e città metropolitana e prevede un ruolo attivo del Ministero della Salute, dell’ANCI, dell’Health City Institute, dell’ISS, di ISTAT, della Fondazione CENSIS, di CORESEARCH, di MEDIPRAGMA, di Cittadinanzattiva, di tutte le Università di Roma, dell’Osservatorio Nazionale per la Salute, dell’Istituto per la Competitività nelle Regioni e di tutte le Società Scientifiche e Associazioni pazienti in ambito diabetologico.
Il programma internazionale Cities Changing Diabetes messo a punto dall’Università di Londra Ucl e dal danese Centro Steno per il diabete, con il contributo di Novo Nordisk, che prima di Roma (2017) ha coinvolto in quattro anni altre sette grandi città: Houston, Copenhagen, Tianjin, Shanghai, Vancouver, Johannesbourg e Città del Messico. Un club di 8 grandi città-laboratorio per il diabete e l’obesità (ma i corretti stili di vita si allargano a tutte le malattie non trasmissibili) nell’ottica Oms. Senz’altro un campo di prova da cui si attendono informazioni e indirizzi importanti.
È comunque complicato passare dalle parole ai fatti, non solo in Italia dove peraltro una rete socio-sanitaria già esiste e non attende che essere attivata sull’obiettivo. Il lavoro da fare, comunque, non è poco. Nelle città italiane infatti per ora si assiste a un peggioramento, salvo rare eccezioni, degli stili di vita.
I fattori di rischio non ancora affrontati sono facilmente identificabili: il lavoro ormai è di tipo prevalentemente sedentario, l’attività fisica latita anche tra giovanissimi e giovani, l’alimentazione è sempre più aderente a modelli “tossici”, ispirati ai pasti veloci e al consumo di cibo spazzatura. Sempre meno sul modello mediterraneo. Tutti fattori sociali e culturali errati che si traducono in un aumento continuo e costante della popolazione affetta da malattie non trasmissibili, metaboliche, quali l’obesità, le malattie cardiovascolari e naturalmente il diabete, vera piaga sociale della nostra epoca.Un terzo dei malati di diabete nel mondo risiede nelle città e anche in Italia l’urban diabetes è problema emergente di sanità pubblica, visto che nelle 14 città metropolitane risiede attualmente il 36% della popolazione del Paese e circa 1,2 milioni di persone con diabete. Percentuali e numeri destinati a crescere vorticosamente nei prossimi decenni, tant’è che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha già allertato i Pesi membri su quelle che considera prossime gravi emergenze: obesità e diabete metropolitani.
L’aumento della popolazione è costante e nei Paesi a medio reddito è di 60.000.000 di persone per anno. Il notevole incremento della popolazione nelle aree urbane è legato anche ai fenomeni migratori. La migrazione della popolazione verso le aree urbane si accompagna a cambiamenti sostanziali degli stili di vita rispetto al passato; cambiano le abitudini, cambia il modo di vivere, i lavori sono sempre più sedentari, l’attività fisica diminuisce. I cambiamenti demografici in corso, che includono l’urbanizzazione, il peggioramento degli stili di vita, l’invecchiamento della popolazione e l’isolamento sociale si riflettono – va ribadito – in una crescita costante della prevalenza di malattie come il diabete.
Il diabete è una delle patologie croniche a più ampia diffusione nel mondo, in particolare nei Paesi industrializzati, e costituisce una delle più rilevanti e costose malattie sociali della nostra epoca, per la tendenza a determinare complicanze sia acute che croniche e per il progressivo spostamento dell’insorgenza verso età giovanili. Nel 2015 l’International Diabetes Federation (IDF) stimava che gli adulti con diabete fossero 415 milioni; in base alle proiezioni, si ritiene che questo numero potrebbe aumentare fino a raggiungere i 642 milioni nel 2040. Nelle grandi città vivono oggi due terzi delle persone affette da diabete.
Anche in Italia l’urban diabetes è un problema emergente di sanità pubblica, visto che nelle 14 città metropolitane risiede il 36% della popolazione del Paese e circa 1,2 milioni di persone con diabete. I fattori più importanti alla base della crescita della prevalenza di diabete sono rappresentati dall’invecchiamento della popolazione e dall’obesità.
Aumenta pure il rischio per le patologie infettive (da sovraffollamento e condizioni igieniche non adeguate), soprattutto per gli abitanti delle baraccopoli e per l’età infantile. L’innalzamento delle temperature e l’aumento d’intensità delle precipitazioni stanno determinando la diffusione di insetti vettori a nuove latitudini. E Chikungunya, Dengue e Zika – le principali infezioni trasmesse dalle zanzare Aedes – si affacciano da tempo anche in Italia (quest’anno si è verificata una nuova epidemia autoctona di Chikungunya che ha interessato le Regioni Lazio e Calabria, con oltre 240 casi confermati) con la necessità di rafforzare la sorveglianza epidemiologica sui focolai e interventi preventivi. Senza contare il ritorno della tubercolosi, con la novità di forme super resistenti alle cure. L’antibiotico resistenza in genere è un’altra delle emergenze Oms.
Ad aggravare il tutto c’è la crisi ambientale, tra mutamenti climatici e inquinamento. Il 92% della popolazione mondiale è esposta ad aria i cui livelli di inquinamento superano i limiti fissati dall’Oms stessa, ogni anno muoiono più di 3 milioni di persone per l’esposizione allo smog e solo il 12% della popolazione risiede in città che rispettano i limiti Oms. Le alte concentrazioni di particolato fine e ultrafine sono inoltre associate con un alto numero di morti per infarto e disturbi cardiaci, disturbi respiratori e cancro. Inoltre sono fonte di comorbilità in soggetti diabetici, obesi, dal sistema immunitario compromesso. Insomma ricadute a catena verso il peggio. Inquinamento sonoro e luminoso incidono anch’essi. Anche l’acqua inquinata gioca un ruolo non indifferente sui rischi per la salute perché spesso per riportarla alla potabilità deve subire forti interventi chimico-fisici.
A tutto ciò si sommano i danni psicologici legati ai mali sempre più diffusi nelle città: stress, isolamento sociale, rischio di essere coinvolti in atti di violenza, incidenti stradali…
Un altro aspetto toccato è stato quello delle migrazioni, sia forzate sia economiche, che alla fine terminano il loro percorso per lo più nelle città. «La quasi totalità delle donne migranti in arrivo in Italia e negli altri Paesi europei sono state oggetto di violenza e le gravidanze sono acquisite durante la migrazione», ha detto (non a Roma ma negli appuntamenti precedenti del G7 italiano) Flavia Bustreo, vice direttore dell’Oms per la salute di famiglie, donne e bambini. In particolare, la Germania ha sottolineato l’importanza della salute mentale delle donne e delle adolescenti migranti, dato che il 50% delle malattie mentali originano durante l’adolescenza. Le donne sono, inoltre, portatrici di salute e di educazione alla salute. Bisogna interrompere sfruttamenti e violenze a loro danno. Poco potrà però essere ottenuto se non si raggiunge, come ha detto la ministra alla salute canadese, «la parità di genere».
Dai lavori interministerili precedenti all’evento del Parco dei Principi era già partito l’appello all’adozione di «azioni coordinate all’interno dei paesi G7 e anche con gli altri Paesi, perché la salute di milioni e milioni di persone è a rischio» e perché globale è il peso economico e umano del cambiamento climatico, del degrado ambientale e dell’inquinamento. Ormai i dati sono inequivocabili: 250 mila morti aggiuntive all’anno direttamente legate al cambiamento climatico e 7 milioni di morti aggiuntive dovute all’inquinamento atmosferico. Il cambiamento climatico influisce inevitabilmente sulle condizioni della salute mondiale: soprattutto negli ultimi dieci anni gli effetti dei cambiamenti di temperatura imprevisti, eventi climatici estremi, stanno esponendo le popolazioni del mondo a pericolose conseguenze come nuove malattie, epidemie e varie ripercussioni fisiologiche. A suggellare l’emergenza un rapporto pubblicato su Lancet realizzato da ricercatori di vari atenei e istituzioni tra cui l’Oms, la Banca mondiale, l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) intitolato “The Lancet Countdown on Health and Climate Change” che ha preso in esame 40 indicatori per monitorare gli impatti dei cambiamenti climatici sulla salute globale e di qui in avanti sarà aggiornato ogni anno. Su questo tema la Wmo ha reso noti dati allarmanti sulle percentuali di anidride carbonica nell’aria che, secondo il rapporto, crescono inesorabilmente ad una velocità preoccupante. Nel 2016 vi è stato il “salto” più grande nell’aumento di anidride carbonica da 30 anni a questa parte e ha portato i valori della concentrazione a un tetto mai raggiunto negli ultimi 800.000 anni.
Per quanto riguarda il clima, le mutazioni in corso agiscono anche sull’epigenetica (e quindi sui geni) degli esseri umani, influenzandone in particolare fertilità e metabolismo. Anche l’aumento di obesità e diabete sembra favorito da squilibri climatici e inquinanti ambientali. Il cambiamento di frequenza degli eventi estremi come ondate di calore, precipitazioni eccezionali e siccità ha effetti diretti sulla salute di esseri umani e animali determinando:
- per la fine del 21° secolo il cambiamento della temperatura di superficie probabilmente sarà causa di un aumento di 1,5°C in più rispetto al 1850;
- tra il 2000 e il 2016 il numero di persone vulnerabili esposte alle ondate di calore è aumentato di circa 125 milioni;
- picchi di mortalità nelle fasce della popolazione più fragili e vulnerabili;
- alterazione delle condizioni di vita e lavoro (diminuzione del 5,3% in produttività per il lavoro rurale a livello globale a partire dal 2000 come risultato dell’aumento delle temperature);
- diminuzione delle risorse idriche e della qualità dell’acqua;
- entro il 2050 si prevedono riduzione della disponibilità di cibo a livello globale e del consumo di frutta e verdura, nonché un netto incremento in tutto il mondo delle morti correlate alla nutrizione (declino del 6% della produzione di grano e del 10% del riso per ogni grado aggiuntivo (1° C) di aumento della temperatura globale);
- incremento dei fenomeni migratori. In futuro, si potrebbero avere 10 milioni di persone per volta in movimento per eventi climatici avversi e/o per gli effetti dei processi climatici a lungo termine ed è prevedibile che oltre un miliardo di persone a livello globale avranno necessità di migrare entro i prossimi 90 anni, a causa dell’aumento del livello del mare dovuto allo scioglimento e collasso dei ghiacci, a meno che non vengano intraprese azioni;
- aumento della diffusione degli insetti vettori (drastico aumento del 3% e del 5,9% della capacità vettoriale per la trasmissione di Dengue di due tipi di zanzare a partire dal 1990) e, di conseguenza, del rischio di trasmissione di malattie infettive, una volta considerate esotiche e ora riemergenti.
«Il messaggio alle popolazioni dei nostri Paesi (quelli del G7) e dei Paesi sui quali possiamo esercitare la nostra influenza è che la salute delle persone viene prima di tutto e non ci sono divisioni; è questo un unico messaggio forte» ha sottolineato la ministra Lorenzin. Che a Roma ha citato anche un esempio virtuoso. Un antidoto già in atto in una realtà italiana. Un modello di strategia integrata in grado di trasformare dalle basi il contesto urbano. Si può etichettare come “welfare generativo di comunità” per promuovere servizi e forme di cooperazione attiva tra i cittadini. Ed ecco l’esempio indicato dalla Lorenzin: il modello delle “microaree” di Trieste, 13 piccole frazioni di dimensione compresa tra i 500 e i 2500 abitanti. Un modello basato sulla creazione di una rete di operatori sanitari presenti in modo continuo nei caseggiati popolari con maggiori problemi di reddito e integrazione sociale. Obiettivo? Garantire aiuti diretti in ambito sanitario, ma anche a sviluppare relazioni di aiuto tra i cittadini e una sinergia tra i servizi. Risultati? Al momento è stato coinvolto oltre il 5% della popolazione che risiede nelle aree più vulnerabili dal punto di vista sanitario e sociale, per la maggior densità di anziani e soggetti deprivati. Con effetti benefici anche per la spesa sanitaria. Alcuni punti di forza dell’esperienza li elenca il ministero della Salute: la continuità nel tempo (oltre 10 anni); la convergenza e la cooperazione istituzionale intersettoriale (Asl, Comune, Ente case popolari, associazionismo); la centralità dell’azione delle strutture sanitarie nel coordinamento degli interventi di costruzione di reti sociali e istituzionali per la salute; gli importanti risultati sulla salute delle persone e sull’appropriatezza delle cure. Altra esperienza: quella condotta nella Valle Maira in Piemonte, che ha applicato a un ambito territoriale di tipo rurale e montano gli stessi principi di cooperazione istituzionale e centralità del coordinamento sanitario utilizzati a Trieste. Il modello ha dimostrato un elevato potenziale nella creazione di reti di relazione, anche in territori spopolati.
Infine va ricordato l’obiettivo più ambito del G7: la copertura sanitaria universale, la necessità di «costruire in tutti i Paesi sistemi sanitari solidi volti al conseguimento della Copertura sanitaria universale (UHC), senza lasciare indietro nessuno, perché è questa la base per affrontare varie altre problematiche» spiega la ministra della salute giapponese Michiyi Takagi, oltre a quelle di «prevenire il collasso dei sistemi sanitari durante le emergenze umanitarie e le crisi sanitarie» e quelle di «ridurre le disuguaglianze a livello globale». Il prossimo summit sulla UHC si terrà il 12 e 13 dicembre a Tokio.
Tenendo sempre presente che la salute è anche un problema di sviluppo sostenibile.
Coinvolge tutti i settori, dall’educazione ai trasporti, al lavoro e all’economia, e va trattato con un approccio trasversale, che tenga conto delle ricadute sulla salute di ogni politica e decisione. La complessità dei temi impone la necessità di uscire dalla tematica squisitamente sanitaria e ciò è stato particolarmente evidente in questo G7. E proprio riguardo al problema dell’urbanizzazione in città fonte di malattia o di aggravamento delle malattie stesse.