Nelle nostre città muore prima chi ha studiato meno
A cura di Vito Costa
Avete mai pensato che alcune zone della vostra città possano avere un’aspettativa di vita superiore ad altre?
Forse sembrano valutazioni più grandi, da riferire alle differenze tra Paesi o continenti, ma in realtà non è così. Anche le città presentano diversità consistenti a seconda che si viva in un quartiere piuttosto che in un altro. A seconda che si viva in periferia o in centro, in zone agiate oppure meno benestanti. Tutto parte dal livello d’istruzione e da qui, a cascata, si scende alle possibilità economiche e agli stili di vita. I quali, come noto, incidono in maniera determinante sulla salute e, in ultima istanza, sulla speranza di vita. Tutto collegato, in una concatenazione sorprendentemente razionale di cause. Tanto razionale quanto, per molti versi, deficitaria di uguaglianza.
Perché se è vero che la salute degli italiani è stata protagonista di un miglioramento progressivo e decisamente netto nel giro di due-tre decenni, è altrettanto vero che questo miglioramento non è stato uniforme tra le fasce di popolazione. Il che, naturalmente, non permette a una società di svilupparsi pienamente e di crescere sotto il profilo socioeconomico e culturale nella sua interezza.
Anzi, le diseguaglianze rischiano di aumentare, allargando ulteriormente il divario tra chi sta bene e chi meno. O meglio, tra chi ha la possibilità di stare bene e chi questa possibilità ce l’ha meno.
Voler intervenire contro queste diseguaglianze non è ideologia politica, si tratta semplicemente del rispetto di un principio costituzionale espresso all’Articolo 32, che recita:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Ora, se è vero che in una città come Torino basta prendere un tram per perdere (o guadagnare, a seconda del senso di marcia) quattro anni di aspettativa di vita da un capolinea all’altro, in soli 45 minuti di tragitto, è chiaro che un problema sul quale intervenire c’è davvero. Lo ha dimostrato uno studio curato da Giuseppe Costa, epidemiologo dell’Università del capoluogo piemontese, che, insieme ad altri studiosi, ha diviso la città per livelli di reddito, ha incrociato altri dati e ha scoperto che la differenza nella speranza di vita può arrivare fino a sette anni tra alcuni isolati più benestanti e altri più disagiati. Se consideriamo la possibilità di accedere alle cure, ad esempio, la diseguaglianza appare chiara: nei quartieri operai di Torino – ha spiegato Costa – l’incidenza di infarti è maggiore del 16% negli uomini e del 18% nelle donne rispetto a chi vive in collina, dove le rivascolarizzazioni sono fortemente più frequenti.
Una differenza che ha anche un’altra spiegazione. Teniamo ancora l’infarto come esempio. Si tratta di un evento acuto che in molti casi può essere evitato seguendo stili di vita corretti: un’alimentazione con pochi grassi, uno scarso uso di alcol, niente fumo, attività fisica costante. Insomma, elementi che possono essere riassunti in una parola: prevenzione. E lo studio di Giuseppe Costa ha evidenziato come questa sia associata ai livelli più colti della popolazione in maniera quasi esclusiva rispetto ai ceti con un livello più basso di istruzione. Livelli di istruzione che vanno di pari passo con quelli economici. Dunque, chi è più ricco e colto fa prevenzione e rischia meno l’infarto. Ma anche quando questo sopravvenisse, con la rivascolarizzazione si salva. Mentre chi ha meno soldi ha potuto studiare meno, non fa praticamente prevenzione e quando è colpito da infarto ha probabilità molto basse di salvarsi, perché vive in zone con strutture sanitarie meno all’avanguardia.
Ma perché costoro non fanno prevenzione? – qualcuno potrebbe chiedersi. Perché chi ha difficoltà economiche ha meno possibilità di garantirsi una dieta più sana, mentre ha più probabilità di cadere in forme di sfogo del disagio come il fumo, l’alcol e la droga. Inoltre – ha sottolineato ancora Costa – istruzione e busta paga più bassa causano un minor controllo sulla propria vita quotidiana. Il che – a sua volta – aumenta i livelli di stress, che irrigidiscono le arterie e portano a infarto o ictus molti anni prima rispetto a chi appartiene alle classi più agiate.
Tutto ciò forse può sembrare troppo semplice per essere vero o troppo razionale al punto da essere banale. Il fatto è che in Italia nessuno lo aveva ancora certificato con degli studi, mentre all’estero ciò era già stato fatto, andando a rilevare diseguaglianze nella speranza di vita tra le classi sociali di una stessa città anche di 15 anni a Glasgow o Washington, oppure i 9 di Londra (“The killing fields of inequality”, di Oxford Göran Therborn).
Dunque per prendersi cura di una città – è evidente – non ci si può occupare solo della sua viabilità o del portare eventi che le diano lustro.
E’ sempre più urgente entrare nelle dinamiche che caratterizzano la sua popolazione.
Una città è un tessuto complesso di fasce sociali.
Quanto più queste crescono in modo omogeneo, tanto più una città si sviluppa in maniera virtuosa. Evitare che i gap economici e culturali aumentino e diano inizio a circoli viziosi è ormai un dovere ineliminabile di ciascuna amministrazione. L’opera pubblica più urgente è l’educazione, l’informazione, la formazione. Anche chi ha studiato meno deve essere messo nelle condizioni di conoscere come seguire stili di vita più sani. Anche chi ha meno possibilità economiche deve avere più a portata di mano strutture sanitarie all’avanguardia. Anche chi appartiene a classi sociali più disagiate deve potersi sentire parte di una comunità cittadina che sa prendersi cura della salute pubblica in maniera più omogenea, meno esclusiva, meno escludente, meno diseguale.