Da Eleanor Roosevelt a Michelle Obama i cambiamenti partono da un minuscolo seme

 

Se per Eleanor Roosevelt l’orto Presidenziale, denominato Victory Garden, era uno stimolo alla popolazione americana a promuovere coltivazioni proprie nel periodo di grande difficoltà di rifornimenti alimentari dovuti al conflitto della seconda guerra mondiale e Hillary Clinton dovette accontentarsi di avere un orto personale modesto sul terrazzo della Casa Bianca, per non alterare la rappresentatività istituzionale dell’edificio, la scelta di Michelle Obama è stata parte di una precisa strategia politica. Un orto biologico, creato in collaborazione con uno staff di esperti e con il cuoco degli Obama Sam Kass, situato nel South Lawn vicino ai Campi di tennis al 1600 della Pennsylvania Avenue, nella parte più decentrata della Casa Bianca. Per promuovere la scelta di cibi salutari e dare il buon esempio, Michelle Obama si mette in gioco e comincia a coltivare personalmente il piccolo appezzamento , facendosi aiutare dalle figlie Malia e Sasha. “Prima di vivere alla Casa Bianca, ero una mamma indaffarata che lavorava, cercando come un giocoliere di conciliare le esigenze del mio impiego con le necessità della mia famiglia. Siccome eravamo entrambi così impegnati, mio marito e io non facevamo sempre le scelte migliori su come mangiavamo a casa. Alla fine, il nostro pediatra ci consigliò di cambiare. Perciò cominciammo a mangiare più frutta e vegetali, bere più acqua, fare attenzione alle dimensioni delle porzioni, e consumare meno cibo da asporto comprato fuori casa. Ben presto, iniziammo a sentirci più in salute e pieni di energia. Perciò io so di prima mano che il modo in cui ci alimentiamo può avere un effetto significativo sulla nostra salute. Per questo motivo, l’obesità infantile per me non è solo una preoccupazione in quanto First Lady, ma anche come madre. E qui sta davvero l’approccio che uso per affrontare questo tema”, ha dichiarò all’epoca Michelle Obama. Un orto che ospita 55 varietà di ortaggi e oltre 10 tipi diversi di erbe e i cui prodotti solo in misura minima finiscono sul tavolo degli Obama, ma che per la gran parte sono destinati alle mense dei poveri, un orto che negli anni ha accolto giovani studenti, esperti di alimentazione e nutrizione, giornalisti e anche altre First Lady, come fu il caso della moglie del Presidente del Consiglio italiano, Agnese Renzi. Un laboratorio dove era possibile parlare di politica attraverso un buon esempio portato avanti dalla First Lady. Michelle Obama del resto non ha mai fatto mistero che il “suo orto” portava in se un messaggio sociale e politico, legato soprattutto a un problema di grande criticità sociale e di impegno personale su uno dei temi più sentiti dalla popolazione afroamericana , come è quello dell’obesità. Concetto che Michelle Obama ha sempre espresso come ad esempio nell’intervista rilasciata a Paolo Mastrolilli, inviato della Stampa a New York alla vigilia del viaggio presidenziale in occasione dell’EXPO 2015 “Il modo in cui viviamo e ci alimentiamo negli Stati Uniti e in altri Paesi sviluppati è cambiato drasticamente negli ultimi trenta anni – ebbe modo di dichiarare Michelle Obama- per esempio, il numero di pasti cucinati in casa è diminuito notevolmente, mentre le porzioni sono diventate sempre più grandi. Abbiamo notato un aumento dell’obesità e di tutte le malattie che fanno capo all’obesità, quali il diabete e le malattie coronariche.

Oggi come oggi, uno su tre bambini negli Stati Uniti è sovrappeso o obeso – per i bambini afroamericani e ispanici, il tasso si aggira intorno al quaranta per cento – e l’obesità è diventata una delle cause principali di mortalità e di malattie prevenibili negli Stati Uniti.”

Una vera e propria missione , che puntava al cuore di un problema molto avvertito dalla popolazione afroamericana ed ispanica nella consapevolezza che gli Stati Uniti non erano l’unico Paese ad affrontare questi problemi e a livello mondiale, ma la politica socio-sanitaria statunitense in quel periodo aveva davanti dati veramente allarmanti. L’obesità infantile, diventa un fenomeno in preoccupante aumento negli Stati Uniti. Stando ai numeri divulgati dalle associazioni mediche erano coinvolte tra il 16 e il 33% di adolescenti e bambini.

L’80% dei quali diventerà un adulto obeso, con tutte le conseguenze che questa malattia comporta in termini sociali ed economici: ogni anno nei soli Stati Uniti muoiono 300.000 persone e i costi si aggirano attorno ai 100 miliardi di dollari. Inoltre dal 2007 al 2008 la percentuale di adulti obesi negli Usa era aumentata dal 25,6% al 26,1% e in alcuni Stati (Alabama, Mississippi, Oklahoma, South Carolina e West Virginia) era superiore al 30%. Sono dati dell’indagine raccolti dal Behavioral Risk Factor Surveillance System (Brfss) dei ‘Centers for Disease Control and Prevention’ – CdC americani, un sistema di sorveglianza dei singoli Stati basato su sondaggi telefonici , che hanno coinvolto più di 400 mila adulti e rappresentando il più grande sondaggio sanitario mai effettuato al mondo per monitorare le condizioni di salute della popolazione americana sopra i 18 anni. L’analisi dei dati era impietosa e non poteva essere ignorata. Nessuno dei 50 Stati (più il District of Columbia) aveva raggiunto gli obiettivi dell’Healthy People 2010 che si proponeva di ridurre il tasso di obesità al 15%. “Gli ultimi dati mostrano che il problema dell’obesità nel Paese sta peggiorando», spiegò Lipin Pan, epidemiologo dei Cdc, «se questo trend continuerà, i costi sanitari cresceranno”. Un successivo comunicato dei Cdc del 16 luglio 2009 (“New Obesity Data Shows Blacks Have the Highest Rates of Obesity”), sempre basato sui dati del (Brfss), evidenziò come i tassi di obesità erano distribuiti in modo sproporzionato tra le diverse comunità della popolazione. Rispetto ai bianchi, i neri hanno una prevalenza dell’obesità superiore del 51%, e gli ispanici del 21%. In generale sul territorio si registrava una maggiore diffusione dell’obesità (sia tra bianchi, sia tra neri) nel Sud e nel Midwest rispetto all’Ovest e al Nordest.

I tassi più alti di obesità per gli ispanici si registrava invece nel Midwest, nel Sud e nell’Ovest. «Questo studio», commentò William Dietz, Direttore del Redstone Global Center on Prevention and Wellness della George Washington University “evidenzia che negli Usa l’obesità colpisce in modo diverso bianchi, neri e ispanici”. Liping Pan spiegò che l’unico modo per ridurre l’obesità in tutti i gruppo sociali o etnici, è quello di “mettere in atto una combinazione di interventi politici e ambientali che possano creare opportunità per una vita più sana”. Tutti gli studi evidenziavano chiaramente che le persone obese erano a rischio per la pressione, per il diabete, gli infarti e le malattie cardiovascolari. Gli individui obesi mediamente costavano, dal punto di vista sanitario, il 77% in più delle persone con un peso equilibrato. Ma inoltre “l’obesità ha un impatto importante non solo sui costi sanitari”, spiegava Janet Collins, direttore del Centro nazionale per la prevenzione della malattie croniche e la promozione della salute, “esse hanno un forte impatto anche sulla produttività dei lavoratori”. Erano tutti dati noti che il Presidente Barack Obama aveva ben chiari e che ponevano un problema di fragilità del sistema socio-sanitario degli Stati Uniti e che potevano minare alcuni cardini della proposta del Presidenziale in termini di riforma sanitaria. Poi vi era un ulteriore motivo sottaciuto, che riguardava la sicurezza nazionale e che se pur conosciuto in quegli anni, risultò evidente tra la fine del primo mandato e l’inizio del secondo mandato del Presidente Obama. Nei primi dieci mesi del 2012, l’esercito americano espulse 1.625 militari sovrappeso Secondo il Washington Post, e la cifra era quindici volte superiore a quella del 2007. Solo nel 2010 il problema era stato segnalato a oltre 86.000 militari, ma è la necessità di tagli alla difesa ad aver incentivato gli allontanamenti.

L’obesità era diventata la principale causa di non idoneità e la tendenza aveva portato a una revisione dei programmi di allenamento. Alcune fonti dell’esercito, evidenziarono in un rapporto al Presidente oBama che questo fenomeno poteva avere ripercussioni sulla sicurezza nazionale.

Il generale in pensione Mark Hertling, a cui nel 2009 era stato assegnato il compito di riorganizzare il sistema di addestramento delle truppe, rilevò sempre al Washington Post che “il 75% di coloro che cercavano di arruolarsi risultava non idoneo principalmente per obesità o cause simili”. “Il 25% di loro rientrava nei requisiti preliminari, ma due su tre non riuscivano poi a superare i test atletici fondamentali”. Erano segnali chiari che l’obesità stava minando le basi dell’efficienza del le forze armate americane e che doveva essere affrontato a livello politico dal “comandante in capo”.